IL TRIBUNALE

    Sulla  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 195
comma  4  c.p.p.  per  violazione  degli  artt. 2,  3,  24, 111 della
Costituzione,  sollevata  dai  difensori  degli  imputati, sentito il
p.m.;

                            O s s e r v a

    Nell'odierno   procedimento,  n. 51-52/2001  R.G.  contro  Nocito
Francesco piu' altri, all'udienza del 13 aprile 2001 e' stata assunta
la  testimonianza  del  m.llo Domenico Di Somma, il quale ha riferito
dichiarazioni  da lui ricevute, e regolarmente verbalizzate nel corso
delle  indagini preliminari, da parte di persone informate sui fatti,
citate in dibattimento come testimoni.
    Il  difensore  dell'imputato  Nocito  Francesco  ha  eccepito  il
divieto  per  gli  ufficiali  e  gli agenti di polizia giudiziaria di
testimoniare sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni
con  le  modalita'  di cui agli art. 351 e 357, comma 2, lettera a) e
b),  ai  sensi dell'art. 195, comma 4, c.p.p., cosi' come riformulato
dalla legge n. 63/2001.
    Il   pubblico   ministero   ha  replicato  chiedendo  il  rigetto
dell'eccezione,  sul  presupposto  che  la norma che la difesa assume
violata,  limita  il  divieto  alle sole ipotesi in cui dichiarazioni
siano   state  assunte  dalla  polizia  giudiziaria  ai  sensi  degli
artt. 351  e  357,  comma  2,  lett. a) e b), e quindi nell'ambito di
attivita' d'indagine di iniziativa della polizia giudiziaria, facendo
salve,  negli  altri  casi,  le disposizioni dei commi 1, 2 e 3 dello
stesso art. 195 c.p.p.
    Il tribunale ha rigettato l'eccezione della difesa, aderendo alla
prospettazione teorica del p.m., secondo un'interpretazione letterale
della   norma:   appreso  dallo  stesso  pubblico  ministero  che  le
informazioni  testimoniali  sono  state  acquisite  dal  testimone di
polizia giudiziaria nel corso di attivita' d'indagine delegata, si e'
ammessa  la  deposizione  sul contenuto delle stesse, valorizzando il
chiaro  dato  letterale,  che a parere del tribunale e' insuperabile,
dell'art. 195,  comma 4, c.p.p. riformulato, che espressamente limita
il divieto ai casi di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettera a) e
b) c.p.p.
    I  difensori  unanimemente hanno quindi eccepito l'illegittimita'
costituzionale  dell'art.  195, comma 4, c.p.p., nell'interpretazione
data  dal  tribunale  e dai medesimi non condivisa, in relazione agli
art.  2.  3,  24  e  111  della  Costituzione,  atteso  che  la norma
contraddirebbe i diritti inviolabili alla difesa e al contraddittorio
nella   formazione   della   prova   e  disciplinerebbe  diversamente
situazioni  identiche, cosi' determinando un'igiustificata disparita'
di  trattamento, sulla base di una scelta assolutamente discrezionale
del  legislatore,  a fronte dell'eguale situazione di fatto derivante
dall'assunzione  delle  stesse  dichiarazioni su delega del p.m. o su
iniziativa della stessa polizia giudiziaria.
    Preliminarmente  il  tribunale  ribadisce  l'interpretazione data
dell'art. 195, comma 4 c.p.p.
    Tale  interpretazione  appare al collegio l'unica consentita alla
luce   del   principio   fondamentale   e   primario  in  materia  di
interpretazione  di  norme  giuridiche:  in  claris  verbis  non  fit
interpretatio.
    La  precisa  indicazione di specifiche norme giuridiche, anziche'
il  ricorso  a locuzioni concettuali, non consente alcuna valutazione
discrezionale  del  giudice: il divieto di testimoniare della polizia
giudiziaria  e'  limitato ai casi in cui le dichiarazioni siano state
assunte con le modalita' di cui agli artt. 351 e 357 comma 2, lettera
a)  e  b)  c.p.p.  e  non  e'  esteso  in generale al contenuto delle
dichiarazioni ricevute in corso di indagine.
    Il  codice  di  procedura  infatti distingue, e tratta in diverse
disposizioni  normative,  l'attivita'  della  polizia  giudiziaria, a
seconda  se  compiuta  di  propria  iniziativa  o  delegata dal p.m.:
l'art. 348,   comma   2,   c.p.p.  disciplina  gli  atti  di  polizia
giudiziaria  precedenti  l'intervento  del  p.m., includendo tra tali
atti  quelli  "indicati  negli  articoli seguenti". Tra questi ultimi
devono   sicuramente  includersi  gli  atti  tipici  d'investigazione
indiretta  (art. 349,  350  e  351  c.p.p.)  e in particolare proprio
l'assunzione  di  sommarie  informazioni  dalle  persone  che possono
riferire circostanze utili alle indagini (art. 351 c.p.p.); viceversa
l'art. 370   c.p.p.  invece  disciplina  l'attivita'  delegata  della
polizia giudiziaria.
    Il  divieto  di  testimoniare  degli  appartenenti  alla  polizia
giudiziaria quindi e' limitato al contenuto delle dichiarazioni dagli
stessi  ricevute  mediante  assunzione d'informazioni testimoniali di
propria iniziativa.
    L'espressione "modalita'", contenuta nell'art. 195 comma 4 c.p.p.
riformulato,  a  parere  del  tribunale  non puo' essere univocamente
interpretata,   come  vorrebbero  i  difensori,  come  "modalita'  di
documentazione" delle dichiarazioni, nel senso di porre un divieto in
tutti  i  casi  in  cui l'ufficiale o l'agente di polizia giudiziaria
abbia  documentato  in  apposito  verbale le dichiarazioni ricevute e
consentire  invece  la deposizione sulle dichiarazioni non trascritte
in apposito verbale, atteso che cio' non e' consentito ne' dal tenore
letterale   dell'espressione   utilizzata,  ne'  dall'interpretazione
sistematica delle norme.
    In particolare non puo' essere ritenuto decisivo, come sostengono
i  difensori,  il  richiamo all'art. 357 c.p.p., proprio per il fatto
che  tale  richiamo,  come gia' sottolineato, e' limitato al comma 2,
lettera a) e b) e non e' alla norma tout court.
    D'altro  canto, va aggiunto che, se con l'espressione "modalita'"
il    legislatore   avesse   voluto   intendere   le   modalita'   di
documentazione,   piu'   lineare   sarebbe  stato  il  richiamo  solo
all'art. 357  c.p.p.,  e  in  particolare  al comma 2 lettera a) b) e
anche  c)  lettera  quest'ultima  che  fa  riferimento  proprio  alle
"informazioni  assunte  a  norma  dell'art. 351  c.p.p.":  proprio il
richiamo  all'art. 351 c.p.p. al di fuori della norma che lo contiene
con   riferimento  alla  documentazione  degli  atti  d'indagine,  e'
evidente  indizio  di  una  piu' ampia interpretazione dei limiti del
divieto  di  testimonianza  indiretta  della polizia giudiziaria, non
delimitato  dall'avvenuta  o meno verbalizzazione delle dichiarazioni
acquisite.
    L'espressione  "modalita'"  invece  puo', e a parere del collegio
deve,  essere  intesa in senso generale come modalita' di svolgimento
dell'attivita'  di  assunzione di informazioni da parte della polizia
giudiziaria  e  quindi  l'unico  discrimine  rintracciabile  - attesa
l'assenza,  come  meglio  si  precisera' nel prosieguo, di ogni altra
distinzione  tra  l'assunzione di informazioni ai sensi dell'art. 351
c.p.p.  e  ai  sensi  dell'art. 370  c.p.p.  -  appare  essere quello
dell'iniziativa propria anziche' derivata dalla delega del p.m.
    Inoltre  la  ricostruzione  interpretativa  dei  difensori  degli
imputati  Nocito  e Musumeci, che perviene al risultato di consentire
la   testimonianza   indiretta   della   polizia   giudiziaria   solo
nell'ipotesi  in  cui  non  siano state verbalizzate le dichiarazioni
ricevute,  a  meno  di  non  voler  essere  restrittiva  al  punto di
limitarla  all'ipotesi  in  cui  le dichiarazioni, essendo rivolte ad
altri,   siano   solo   occasionalmente   percepite   dall'agente   o
dall'ufficiale  di  polizia giudiziaria, non tiene conto del generale
dovere  di  verbalizzazione  che  incombe,  anche  se  non  a pena di
nullita'   e  inutilizzabilita'  delle  dichiarazioni  stesse,  sulla
polizia  giudiziaria  che assuma dichiarazioni testimoniali che certo
sarebbe   tenuta  a  fornire  una  plausibile  giustificazione  della
violazione di tale dovere di documentazione.
    Tutto  cio'  premesso, deve osservarsi che la questione sollevata
appare  rilevante  in  quanto  decisiva  ai  fini  delle  modalita' e
dell'estensione delle testimonianze degli ufficiali e degli agenti di
polizia giudiziaria citati dalle parti nel presente procedimento.
    La   questione  inoltre,  a  parere  del  tribunale,  non  appare
manifestamente infondata.
    In  relazione  all'art. 3  della  Costituzione,  infatti,  non si
ravvisa  alcuna  ragione logico giuridica per differenziare l'ipotesi
in cui l'ufficiale di p.g. abbia assunto s.i.t. di propria iniziativa
e  quella in cui invece abbia acquisito dichiarazioni testimoniali su
delega  del  p.m., facendosi divieto nel primo caso, diversamente dal
secondo, di testimoniare sul contenuto delle dichiarazioni stesse.
    Invero  le  due  situazioni  appaiono  identiche,  trattandosi in
entrambi  i  casi di attivita' di assunzione di informazioni da parte
della polizia giudiziaria.
    In  particolare  sono  identiche  le modalita' di documentazione,
atteso che l'art. 357 c.p.p. per l'attivita' di iniziativa della p.g.
richiama   le   modalita'   dettate   dall'art. 373   c.p.p.  per  la
documentazione  degli atti del p.m. e della stessa p.g. su delega del
p.m.;  identica  e'  la destinazione dell'atto al fascicolo del p.m.,
salvi i casi di irripetibilita'; identica e' l'utilizzabilita' per le
contestazioni,   sia   con  riferimento  all'ammissibilita'  sia  con
riferimento  agli effetti delle stesse; in entrambi i casi e' ammessa
la  lettura  delle  dichiarazioni  ai sensi degli artt. 512 e 512-bis
c.p.p.
    Conseguentemente,  il  fatto  che  nell'un  caso le dichiarazioni
siano   assunte   su  iniziativa  autonoma  della  p.g.  e  viceversa
nell'altro  a seguito di apposita delega d'indagini da parte del p.m.
non  appare  circostanza  tale,  da poter discriminare il trattamento
riservato  alla  testimonianza indiretta dell'ufficiale o dell'agente
di  polizia  giudiziaria  in  dibattimento,  che solo nel caso in cui
avesse  operato  su delega del p.m. sarebbe legittimato a deporre sul
contenuto delle informazioni testimoniali assunte.
    Non   appare   pertanto   infondato  ritenere  che  tale  diversa
disciplina della testimonianza indiretta dell'ufficiale o dell'agente
di   polizia   giudiziaria   non  apparendo  giustificata  da  alcuna
differenza  sostanziale, confligga con il principio di uguaglianza di
cui  all'art. 3  della  Costituzione,  che invece e' posto a presidio
della  parita'  di  trattamento  delle  situazioni uguali, che devono
essere regolate da disciplina unitaria.
    Nella stessa ottica di discriminazione di situazioni identiche, e
solo  entro  tali  limiti,  appare  non  manifestamente  infondata la
questione  di  legittimita'  dell'art. 195, comma 4 c.p.p., sollevata
con riferimento agli artt. 2 e 24 Cost.
    Ritiene  il  collegio  che  la  legittimazione alla testimonianza
indiretta  dell'ufficiale  o  dell'agente  di polizia giudiziaria sul
contenuto  delle dichiarazioni assunte su delega del p.m. (che deriva
dalla  precisazione  del  divieto di cui all'art. 195, comma 4 c.p.p.
come  riferito  al  solo  caso di dichiarazioni assunte dalla p.g. di
propria  iniziativa)  non  appare di per se' comprimere il diritto di
difesa,  se  non  nei limiti in cui rimette alla discrezionalita' del
p.m.  la decisione di delegare o meno l'atto e quindi di consentire o
meno  la  testimonianza  sul  contenuto  dello stesso all'ufficiale o
agente di polizia giudiziaria, consentendo cosi' al p.m. di sottrarre
un  teste  alle  domande  del  difensore  dell'imputato (anche se non
appare   illogico  immaginare  che  il  p.m.  si  riservi  sempre  la
possibilita'  di  sentire  come  testimone  la p.g., delegando sempre
l'assunzione di informazioni).
    Viceversa  non  appare  sussistere la compressione del diritto di
difesa,  individuata  dai  difensori degli imputati Nocito e Musumeci
nella  vanificazione  della redazione formale del verbale, quale atto
idoneo  a garantire la conformita' delle dichiarazioni dibattimentali
con  quelle  predibattimentali  e  idoneo  ad  evitare  l'ingresso in
dibattimento   di   dichiarazioni   diverse   da   quelle  fedelmente
documentate.
    Infatti,  anche per l'ufficiale e l'agente di polizia giudiziaria
vale  la  stessa  disciplina  applicabile  ai  testimoni  de  relato,
contenuta   nei   primi   tre  commi  dell'art. 195  c.p.p.,  con  la
possibilita'  delle  parti  e  quindi  del difensore dell'imputato di
chiedere, e l'obbligo del giudice di disporre, la testimonianza della
fonte  diretta  e  nel caso di irripetibilita' di produrre il verbale
delle dichiarazioni.
    Anzi,  a  ben vedere, la testimonianza indiretta dell'ufficiale e
dell'agente  di  polizia giudiziaria appare anche piu' garantista per
la  difesa  dell'imputato,  proprio  nell'ipotesi  in cui il medesimo
riferisca  dichiarazioni  da lui ricevute e formalmente verbalizzate,
attesa  la possibilita' per il difensore nel corso del controesame di
far  rilevare le difformita' tra quanto indirettamente testimoniato e
quanto invece verbalizzato e riferito in proprio dalla fonte diretta,
mostrando  al  testimone  il  verbale,  da lui sempre consultabile in
quanto atto a propria firma.
    Quanto   alla  compatibilita'  tra  l'art. 195  comma  4  c.p.p.,
nell'interpretazione   resa   dal   tribunale   -   che  consente  la
testimonianza  della polizia giudiziaria sulle dichiarazioni ricevute
nelle  sommarie  informazioni  testimoniali  delegate  - e l'art. 111
della  Costituzione,  non  si  ravvisa nemmeno alcun contrasto tra la
norma medesima e il principio di parita' tra accusa e difesa, sancito
dalla Costituzione con l'introduzione del predetto articolo a seguito
dell'adozione  della  legge costituzionale n. 2/1999, all'infuori del
predetto  potere  del p.m. di scegliere preventivamente di delegare o
meno   l'atto   di   indagine  e  quindi  di  consentire  o  meno  la
testimonianza  dell'appartenente  alla  polizia  giudiziaria, in modo
assolutamente  discrezionale  e  in  posizione di preminenza rispetto
alla  difesa, che si vedrebbe privata della possibilita' di esaminare
un  teste  in  dibattimento, senza alcuna possibilita' di intervenire
nella scelta dell'accusa.
    Infatti,  da  un lato e' evidente innanzitutto che la deposizione
dell'ufficiale o dell'agente di p.g. non e' sottratta alle regole del
contraddittorio, con l'ulteriore garanzia di veridicita' sopra detta,
derivante  dal  riscontro  del verbale alle dichiarazioni riferite in
dibattimento  quale  testimone  de  relato, e quindi e' perfettamente
compatibile  e in sintonia con i principi del contraddittorio e della
parita' delle parti introdotti dalla nuova formulazione dell'art. 111
Cost.  In  secondo  luogo  non  puo' nemmeno dirsi violato il diritto
dell'imputato di interrogare o fare interrogare davanti al giudice le
persone   che   rendono   dichiarazioni   a   suo   carico,  previsto
dall'art. 111  comma  2  Cost.,  atteso  quanto  gia'  osservato  con
riferimento  alla  previsione generale per cui il giudice e' tenuto a
disporre  la citazione del testimone diretto su richiesta di parte, a
pena di inutilizzabilita' della testimonianza indiretta.
    Pertanto   l'unico  profilo  di  illegittimita'  che  residua  in
relazione   all'art. 111  della  Costituzione  e'  il  medesimo  gia'
rilevato  con  riferimento al conflitto con gli artt. 2 e 24 Cost., e
cioe'  nei limiti in cui si profila una posizione di preminenza della
pubblica  accusa  sulla difesa, nell'attribuire alla discrezionalita'
del  p.m.  la  decisione  di  delegare o meno l'atto, con la predetta
conseguenza di consentire al p.m., nella seconda ipotesi, di decidere
di sottrarre un testimone alle domande del difensore dell'imputato.
    Contenuto   entro   tali   limiti   il  conflitto  tra  la  nuova
formulazione  dell'art.  195,  comma  4,  c.p.p.  e  l'art. 111 della
Costituzione,  non  e'  illogico  ne' contradditorio che il tribunale
sollevi  d'ufficio  la questione di legittimita' costituzionale della
norma in questione, sotto il profilo proprio della reintroduzione del
divieto di testimonianza indiretta dell'ufficiale o agente di polizia
giudiziaria, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione.
    Infatti,  a  parere  del  tribunale, l'introduzione, con la legge
n. 63/2001,  del divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali e
degli  agenti  di p.g., sebbene nei limiti in cui e' riferito ai soli
casi  degli  artt. artt. 351  e  357,  comma  2,  lettera  a) c.p.p.,
riproduce  sostanzialmente la medesima illegittimita' gia' dichiarata
dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 24 del 31 gennaio 1992.
    La  Corte  infatti  con  la  predetta  sentenza  rilevava come il
divieto  originariamente  introdotto di testimonianza indiretta degli
ufficiali   e   degli   agenti   di  polizia  giudiziaria  costituiva
un'eccezione  assolutamente  ingiustificata  rispetto alla disciplina
dell'art. 195  c.p.p.  nel  suo  complesso  e  rispetto altresi' alla
regola generale sulla capacita' di testimoniare (non essendo prevista
alcuna  incompatibilita'  dall'art. 197  c.p.p. nei loro confronti) e
dichiarava  l'illegittimita' costituzionale della norma per contrasto
con l'art. 3 della Costituzione.
    La  Corte  in  particolare  osservava come non potesse rinvenirsi
alcuna  differenza  tra  l'appartenente alla polizia giudiziaria e il
testimone   comune,   risultando  una  tale  distinzione  palesemente
"assurda"  e  in  insanabile  contraddizione  col ruolo e la funzione
attribuiti dalla legge alla polizia giudiziaria.
    Non   puo'   nemmeno  rinvenirsi  nessuna  giustificazione  della
differenza tra la generale capacita' a testimoniare dell'appartenente
alla polizia giudiziaria e il divieto di testimonianza indiretta, che
non  e'  altro  che  una  particolare forma di testimonianza, ammessa
dalla legge sebbene con precisi limiti e garanzie.
    L'attivita'  svolta  dalla  polizia  giudiziaria  nella  fase  di
indagini   non   puo'   essere  la  giustificazione  del  divieto  di
testimonianza  indiretta,  atteso  che  in  tal  caso dovrebbe essere
prevista  una  generale incompatibilita' con l'ufficio di testimone e
non solo un divieto di testimonianza indiretta.
    Tali   argomentazioni  della  corte  appaiono  tuttora  valide  e
utilizzabili  a  sostegno  dell'incostituzionalita'  del  divieto  di
testimonianza  indiretta  reintrodotto  dal  legislatore  sebbene nei
limiti attuali.
    Infatti  la  modifica  dell'art. 111 della Costituzione nella sua
attuale  formulazione non appare incidere sulle considerazioni svolte
dalla   corte  con  riferimento  alla  violazione  del  principio  di
uguaglianza da parte della norma come originariamente formulata.
    Il  legislatore,  a  parere  del  tribunale,  ha  reintrodotto  e
riformulato   un   divieto  che  appare  in  evidente  ed  insanabile
contraddizione  con  l'art. 3  della  Costituzione  per i motivi gia'
individuati  dalla  corte  con  la  sentenza  n. 24/1992 e che non si
giustifica  minimamente con il mutato quadro costituzionale alla luce
del nuovo art. 111 Cost.
    Al  riguardo  va tenuto presente che gia' nella suddetta sentenza
la  Corte  osservava  come  l'originario divieto di cui all'art. 195,
comma  4,  c.p.p.  non  potesse  ritenersi,  come  si affermava nella
relazione  al progetto preliminare, dare attuazione alla direttiva 31
della legge delega, che mira a garantire il diritto di difesa, atteso
che  il diritto di difesa e' comunque tutelato attraverso le generali
regole   del   contradditorio   e  quindi  attraverso  l'esame  e  il
controesame del testimone.
    Tali  affermazioni  sono  sicuramente riproponibili per l'attuale
divieto  di  cui  all'art. 195, comma 4, c.p.p., nei casi di cui agli
artt. 351 e 357 comma 2 lettera a), atteso che le generali regole del
contradditorio applicate all'esame dell'ufficiale o agente di polizia
giudiziaria  sono  idonee  e  sufficienti  ad  escludere che le parti
processuali  non  si  trovino  in condizioni di parita' e uguaglianza
nell'acquisizione    della   prova,   nel   rispetto   dei   principi
dell'art. 111 Cost. commi 1, 2 e 3.
    Inoltre la generale disciplina della testimonianza indiretta, che
impone,  su  richiesta delle parti, la citazione della fonte diretta,
sicuramente  applicabile  anche  al  testimone  ufficiale o agente di
p.g., consente il rispetto del diritto dell'imputato di interrogare e
fare  interrogare  le persone che rendono dichiarazioni a suo carico,
come sancito nell'art. 111, comma 2, Cost.